Museo Civico Archeologico di Fermo

Delle Antichità Picene di Giuseppe Colucci – Sala 2

Per saperne di più

Il Colucci nacque il 19 marzo 1752 a Penna San Giovanni (archidiocesi di Fermo), da Nicolantonio
e da Palma Martini, di Santa Vittoria in Matenano. La famiglia vantava tradizioni antiche e di un certo rilievo, discendendo da un ceppo di piccoli feudatari, operanti, tra il XIII ed il XIV sec., nella fascia preappenninica dell’entroterra fermano e maceratese. Compiuti i primi studi al paese natale, li proseguì a Fermo, dal 1768, sotto la guida dei gesuiti. Fu ordinato sacerdote nel 1775 e nel 1781 conseguì la laurea in utroque. Ottenne successivamente l’incarico di lettore presso la facoltà di diritto. Erano nel frattempo maturati in lui interessi che lo allontanavano dagli studi giuridici, filosofici e teologici. Nel clima di rinnovamento culturale registratosi nella penisola a partire dai primi decenni del secolo e sollecitato dai numerosi resti archeologici esistenti nel circondario di Fermo, il Colucci si era dedicato, fin dal 1776, a ricerche di carattere storico-archeologico, partendo dall’esame dei ruderi dell’antica Falerio Picenus (oggi Piane di Falerone). Estese negli anni successivi le indagini ad altre località, ottenendo lusinghieri apprezzamenti da parte di letterati, oltre che la protezione di influenti membri della Curia romana, come i cardinali Guglielmo Pallotta e Francesco Saverio de Zelada, il futuro segretario di Stato di Pio VI.
Stringeva nel frattempo legami di amicizia con varie personalità del mondo culturale italiano, tra cui il pesarese Annibale degli Abati, Olivieri Giordani, l’abate Gian Francesco Lancellotti di Staffolo, il padre Gregorio Fontana dell’università di Pavia, il veneziano Antonio Maria Zanetti, Scipione Maffei, Francesco Saverio Castiglioni (successivamente, papa Pio VIII), Girolamo Tiraboschi, coi quali rimase a lungo, soprattutto con quest’ultimo, in corrispondenza epistolare.
Diverse accademie dello Stato pontificio lo accoglievano tra i propri soci: dopo quella degli Erranti di Fermo, quella dei Georgici sollevati di Treia, la Clementina di Bologna e l’Arcadia di Roma, nella quale assunse lo pseudonimo di Lacinio Telamonio.
Col passare degli anni concepì il vasto disegno di allargare il raggio d’interesse a tutto il Piceno.
L’idea si concretizzò nella programmazione di un’opera (da una lettera del Castiglioni datata 24 luglio 1784 conservata nella Biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata, si rileva che il Colucci aveva previsto dieci tomi) che illustrasse le “patrie antichità”. A tale scopo, nel 1783, realizzò e diffuse due manifesti. Esponeva con l’uno il piano dell’opera e chiedeva l’associazione al progetto; con l’altro, corredato da un elenco di ventinove quesiti, sollecitava notizie e documenti.
I risultati furono inferiori alle attese, in quanto non solo poche Comunità, nonostante le pressioni del card. Pallotta, fornirono risposte; ma cominciarono altresì a manifestarsi malumori ed insofferenze contro di lui, attraverso lettere anonime e risposte poco cortesi. Tuttavia egli non abbandonò il progetto.
Forte dell’incoraggiamento degli amici, oltre che del sostegno dei protettori romani (nel 1784 fu fatto protonotario apostolico), diede alle stampe nel 1786, in Fermo, il primo volume Delle Antichità Picene (I-XXXII, Fermo 1786-1797), in cui inserì, insieme ad alcuni suoi lavori precedenti, la dissertazione sulla Origine dei Piceni di Michele Catalani. Il volume, dedicato a Pio VI, fu ben accolto dal pontefice, il quale concesse al Colucci amplissime facoltà di accedere alle biblioteche ed agli archivi, anche segreti, di tutte le Comunità e di tutti i monasteri piceni ed inoltre, con chirografo del 27 giugno dello stesso anno, dispose che “ciascuna città, terra o castello del Piceno dovesse fornirsi di un esemplare dell’opera” (cfr. Hercolani, II., p. 49).
Da quel momento il Colucci, che già aveva allestito una tipografia con annessa calcografia ed una libreria per la distribuzione dei volumi – la Libreria di Pallade -, diede avvio ad un’attività intensa, attraverso la quale, nel giro di un decennio, portò a trentuno i volumi delle Antichità (cui si debbono aggiungere quattro fascicoli di tavole, considerati il tomo XXXII).
Impossibilitato a procurarsi da solo notizie e documenti, accoglieva ed inseriva nei suoi volumi,
corredandoli spesso di presentazioni e di annotazioni, i contributi di quanti volessero far luce sul passato del proprio paese o città. Costituì inoltre un gruppo di collaboratori diretti, quasi un’équipe redazionale, nel quale emergevano il già ricordato Catalani e Giuseppe Vogel, sacerdote emigrato dall’Alsazia.
L’opera, che raccoglie una gran quantità di documenti e notizie, dall’età preromana al tardo Medioevo, sui temi più svariati (si passa dall’archeologia alla geografia fisica ed antropica, alle attività economiche, artistiche e culturali; dagli istituti politici, religiosi, amministrativi e giuridici, alle vicende militari, al caratteri folcloristici ecc …), risulta nel complesso disorganica e talvolta pletorica, composta da dissertazioni spesso inviate da ricercatori troppo inclini a suggestioni campanilistiche e forniti di livelli culturali e di preparazione specifica differenti tra di loro. Essa pertanto, settecentesca nei temi affrontati e negli intenti di riportare in primo piano tradizioni e glorie patrie, nell’impostazione e nell’organizzazione, risente largamente della produzione, più compilatoria che critica, di filologi ed eruditi dell’età barocca. Resta tuttavia ancora oggi, pur nei suoi limiti oggettivi, una fonte preziosa ed insostituibile per gli studiosi e si deve soprattutto ad essa se al Colucci è stato conferito l’appellativo di “Muratori delle Marche”.
A mano a mano che i tomi crescevano di numero, il Colucci dovette affrontare attacchi di critici e
malevoli, che gli rimproveravano mancanza di vaglio critico o discordavano dalle tesi da lui accreditate o addirittura reclamavano la conclusione dell’opera o almeno che il papa togliesse il vincolo dell’associazione obbligatoria. Ed egli si lasciò andare di frequente ad astiose polemiche, solo in parte giustificate dalla villania e dalla gratuità di certe accuse. Per il precipitare degli eventi politico militari interruppe la pubblicazione nel 1797, nonostante continuasse a raccogliere e collazionare materiale, come testimoniano i venti volumi rimasti inediti. Avrebbe potuto riprenderla nel 1800, se non avesse ceduto alle pressioni di mons. Cesare Brancadoro, cui era legato da antichi vincoli di amicizia, che, nominato in quell’anno vescovo di Orvieto, lo volle con sé, in qualità di vicario generale. Conservò tale incarico pure quando il cardinale fu trasferito alla sede arcivescovile di Fermo (1803). Morì a Fermo il 16 marzo 1809.
(Voce a cura di Carlo Verducci in Dizionario biografico degli italiani della Treccani)